mercoledì 9 ottobre 2013

...poor richard


Quella sera Richard  era uscito da lavoro alla stessa ora di sempre, nessun ritardo, niente straordinari, alcuna chiacchera in più scambiata appena fuori la porta dell’ufficio. Aveva fatto gli stessi 57 passi che lo dividevano dal bar , situato accanto alle scale che portavano alla metropolitana; aveva ordinato la solita birra, che si fermava a bere sempre prima di rincasare, servita in un bicchiere troppo piccolo per il suo volume e le ormai familiari gocce che ne erano traboccate gli avevano  sfiorato la destra in una carezza che era quotidianità. Aveva abbandonato gli spiccioli sul bancone ed era uscito inabissandosi nei corridoi della metropolitana; stessa linea , stesse 5 fermate, stessa quantità di gente, stesso odore acre di chiuso , stessi occhi stanchi di chi ha concluso un’altra giornata socialmente accettabile. Le porte della metro che si aprivano non avevano niente di diverso nello scivolare, lasciandolo libero di scendere; né tanto meno nel farlo aveva compiuto gesti diversi da quelli che compiva solitamente, nessun ultimo sguardo all’interno, né pensiero profondo riguardo il senso di prigionia che si avverte nell’impossibilità di sfuggire a quel sistema perfetto. Era uscito dalla metropolitana e aveva respirato a pieni polmoni l’aria fresca del tramonto, con la stessa intensità con cui ogni sera con passo svelto attraversava i corridoi soffocati dalla ripetitività delle azioni che giorno dopo giorno la gente compie. Quindi, si era diretto con un passo che non tradiva alcuna fretta verso il palazzo dove conviveva con la donna che reputava essere “sua” da qualche anno;aveva quel piccolo appartamento che aveva chiamato da molto più tempo “casa”, ma che aveva sentito come  tale solo da quando aveva incominciato a trovare ogni mattina il tubetto del dentifricio mal usato. Lei si ostinava a cercare di tirare fuori il dentrificio, facendo pressione a metà del tubetto, condannando la restante parte finale ad una morte lenta e senza scampo; essendo pressoché impossibile riuscire ad aiutare il dentrificio superstite, lasciato sul fondo del tubetto, ad uscire. Aveva provato inutilmente a convincerla di quanto fosse crudele la sorte a cui condannava il povero dentifricio, lei si limitava a scuotere il capo, trincerandosi in quella testardaggine solo sua nella sfumatura degli occhi, inorgogliti del loro primato. Il palazzo, dove vivevano, non aveva l’ascensore, così Richard come ogni sera maledì questa mancanza e con il solito leggero sbuffo, aveva incominciato a salire le scale. Loro erano sempre le stesse, non cambiavano mai, sembravano non voler cedere, a dispetto degli esterni del palazzo, alla loro età; non avevano più lo splendore del loro fiore degli anni , certo, ma rimanevano inappuntabili. Finite, le scale, aveva preso la chiave che portava sempre nella tasca anteriore destra dei pantaloni e l’aveva infilata nella toppa. Mentre, apriva era stato investito come sempre dal profumo della loro casa, che poco aveva a che fare con ciò che si mangiava per cena,ma aveva qualcosa di tipico. Quel qualcosa che ha a che fare con quanto ami il caffè,  con quante volte lasci la bottiglia vuota del brandy aperta, con quante volte ti si rompe il riscaldamento, con quante notti passi davanti al computer acceso cercando di finire del lavoro per cui sei in ritardo; ha a che fare anche con fino a che ora lei ti aspetta sveglia al letto,  con quanta aria buttate fuori parlando, con quando è stata l’ultima volta che avete litigato e quando l’ultima che vi siete addormentati sul divano guardando un film che lei odiava,ma che ha noleggiato al Blockbuster all’angolo, solo perché sapeva ti sarebbe piaciuto. Solo una dannatissima cosa,  sembrava essere diversa da sempre: non c’era lei; E sai da cosa te ne accorgi? Da quel peso che corre a premere sul petto, colmo dei dubbi taciuti ogni giorno dalla sicurezza di una quotidianità inscalfibile. Eppure in quel momento non c’era niente di normale e quotidiano nel suo non esserci. Le domande correvano subito ad affollarsi nelle vene dove il sangue non si azzardava neanche a muoversi, per raggiungere in fretta la sede del pensiero. No, non poteva essere, non poteva essere fuggita a quella torre perfetta , i cui mattoni erano solidi e indistrubbili nel loro esserlo ogni giorno, fatti di calce e routine.  Dolore, sofferenza, rancore, rabbia?che avrebbe dovuto fare Richard davanti alla scomparsa della sua vita? Perché quando la tua vita sparisce lasciandoti una lettera e un cassetto vuoto, c’è poca scelta nelle emozioni da provare. O meglio ce ne sono un migliaio di diverse figlie concepite nelle notti consumate dagli umori di un Amore che si appaga solo con il più massacrante dei dolori, lasciando sul letto disfatto i corpi dei due amanti sfiniti. Ma ci si accontenta sempre di quelle più facili da conquistare.
Eppure quando finisci di appagarti l’unico desiderio che hai è allontanarti da chi ti ha appagato, di stare solo, di goderti l’amaro in bocca mentre l’estasi si dilegua; almeno così credi sia sempre, almeno così credi sia la costante della funzione desiderio umano. E vivi: risolvi il tuo bel sistema di equazioni, la tua vita.
Ognuno col suo metodo, molti arrivano alla loro soluzione unica, altrettanti ad infinite, altri ancora a nessuna. Poi ci sono quelli da sistema irrisolto, quelli che provano e riprovano ma la loro equazione di vita ha una variabile in più che rende inutili tutti gli altri metodi. Fino a quando, la loro variabile in più assume le forme di una donna dagli occhi veri.  Quegli occhi che ti fanno dimenticare l’equazione, che si fanno sistema nella tua mente, che si fanno mare e terra, che si fanno volontà e scelta.
Richard l’aveva scelta, ma non vi immaginate fiere,cavalli o pesate. Richard aveva scelto di soffrire per lei, aveva scelto di lottare per lei, aveva scelto di morire per lei, aveva scelto di porre al centro della sua vita un essere che astraeva da sé stesso. Questo è l’Amore, quello di cui tutti hanno paura , quello che ti fa impazzire,quello che ha reso Medea capace di intendere e di volere, quello che ha devastato l’anima di Catullo, quello che ha portato Eloisa a sposare qualcuno di diverso dal suo maestro dei sentimenti del cuore Abelardo senza una lacrima pur di salvarlo. Quell’Amore che dovrebbe essere inteso come incapacità di intendere e di volere e dovrebbe essere abbastanza per far assolvere qualunque accusato si  sia macchiato di siffato crimine.
Perché tanto chi ama, paga ogni giorno, è condannato ogni giorno, muore ogni giorno, abbandonando tutto ciò che era prima per fondersi con un’emozione. Il suo boia è il tremito che scuote l’anima , la sua morte è la tempesta abbracciata e stretta come fosse il più desiderato dei ripari, mentre ti perdi in un dolore che vuoi che ti sussurri forte “sono tua” mentre la possiedi, che si avvinghi a te e ti porti via l’anima dal corpo , che si spenga nel respiro dei tuoi occhi. Scoprendo che lei dolore vive di te dolore, che mi baci e ti appropri della labbra che ti canteranno il nostro concepimento d’amore.
La porta si richiuse, dietro le spalle di Richard, ma non vi entrò un soffio di vento, come a ricordargli che per le leggi della fisica, se lasci una porta aperta prima o poi sbatterà, facendoti sobbalzare. Entrò lei, con un borsone appoggiato in spalla e l’aria un po’ stanca.
“ Ehi, ti avevo detto che si stava per rompere la lavatrice, sono dovuta andare in lavanderia!Ci ho perso il pomeriggio lì dentro”. Disse la ragazza lasciando scivolare il borsone a terra e andando verso la cucina.
Richard la guardò come la stesse vedendo per la prima volta nella sua vita,non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, avvertendo al petto una sensazione fra l’incredulo, il sollevato e la terribile consapevolezza di essere fragile.
Sì come quando si usa quell’espressione “ha visto la morte da vicino” , riferendoci a qualcuno che dopo determinate esperienze che lo hanno portato a contatto diretto con l’ultimo confine consentito, cambia radicalmente la sua visione delle cose, poiché scopre la caducità della vita umana.
Ecco ,Richard non aveva avuto bisogno di un’esperienza di contatto finale, aveva capito quanto dipendesse da qualcosa, quanto il suo stato di cose, la sua vita, la sua quotidianità, la sua sicurezza, la sua capacità di risolvere il suo sistema fosse ormai indissubilmente legato a quella donna dagli occhi verdi. Stette a guardarla scomparire dietro la porta della cucina imbambolato, come se per un attimo la sua fragilità si nascondesse nel timore di non poterla più guardare sparire nelle stanze di quell’appartamento.
Lei tornò indietro affacciandosi e sorridendo disse “Ehi sembra che tu abbia visto un fantasma… stai bene?”
"E' tutto lì"

  Il tempo rallenta il suo battito
  sempre più forte rimbomba nel cuore.
  La tempesta eccita il sangue,
  non conosce pulsione più appagante.
  Mai sazio riempe i polmoni dell'ultimo istante,
  uccidendo il terrore del momento a seguire.
  Fine del momento felice.
  Triste condizione la fugacità,
  condanna l'eternità.
  La memoria insegue l'eterno,
  non ha rispetto per l'ordine.
  Peccato non viva di sè,
  necessita di un battito congiunto
  che lentamente, nelle iridi di un sorriso,
  muore di vita che non gli appartiene.

E poi ritrovi cosa scrivevi a 17 anni..dopo un viaggio in treno..



Treno della Memoria: destinazione futuro.

Molti direbbero che tutto sia cominciato con quella marcia  di una folla composta da ragazzi sprovvisti di cori e striscioni, da professori afoni di rimproveri e spiegazioni, che lasciati banchi e cattedre salivano su un treno con destinazione nel tempo passato; invece ,forse, i primi germogli di una consapevolezza di ciò che era stato quella dimostrazione dura e impietosa, chiamata dai più “Olocausto” , era  sedimentata in anni di immagini, di film, di racconti, di lezioni, di canzoni e parole che rimbombavano forti nei cuori. Quindi quando si è prospettata davanti a noi la possibilità di respirare l’aria di ciò che avevamo potuto solo sfiorare indirettamente, sapevamo già  che questa coscienza avrebbe iniziato a pesare come un macigno, imponendoci il dovere di raccontare a chi circonda il nostro quotidiano e il diritto di far tacere nei meandri della mente l’eco di anni di parole.
Forse può sembrare contraddittoria la contrapposizione di informazione e silenzio, ma è proprio quest’ultimo che ti stordisce quando cammini nella neve fra le baracche di Birkenau.
 Le grida prive di voce di chi lì ha incontrato la morte ti colpiscono come un duro pugno allo stomaco, ti tolgono il fiato e nella tua testa si fa spazio violentemente solo una domanda: “perché?”.
Alle spiegazioni del male organizzato sistematicamente che Auschwitz ti offre sei, quasi, abituato al senso di impotenza che avverti, mentre ti aggiri  per i corridoi di quel museo dell’Inferno.
 Tuttavia, quando ti incolonni  varcando la soglia della camera a gas, rimasta in piedi, arrogante mausoleo del progetto di un pazzo, quando sfiori con le tua mani così umane i segni di chi in un ultimo sordo urlo di vita ha graffiato con la forza dell’animale , allora  capisci quanto qualsiasi racconto può essere lontano da ciò che realmente fu.
Le domande ora si accalcano l’una sull’altra sgomitando per avere la prima risposta, ma questa volta nessuna guida, nessun professore, nessuna spiegazione, nessun libro può aiutarti.
Solo la tua coscienza può farti comprendere che fu come il dare sfogo ai più nascosti e repressi istinti crudeli che possono albergare nell’uomo, che sono sazi nel solo piacere sadico.
Solo la tua legge morale ti può far condannare chi fu definito dai posteri “la zona grigia”, chi si dichiarò indifferente davanti allo sterminio, chi chiuse gli occhi davanti alle lacrime del bambino, chi si fece sordo alle urla del vicino arrestato nel cuore della notte, un’Europa troppo impegnata a piangere la morte degli ideali che tanto faticosamente aveva partorito, per accorgersi che  continuavano a morire ogni minuto in quei campi.
Tuttavia, inizia a farsi strada la voglia di non essere i nipoti viziati di quella civiltà, ma i figli di una memoria che oggi è ancora più viva, che oggi deve alzare la testa davanti ai massacri che ci vengono raccontati dalla televisione non relegandoli ai cinque minuti di una giornata troppo piena di impegni.
Stanchi di essere la generazione della morte delle ideologie, esperienze come queste ci aiuteranno a diventare gli artefici di una società che non avvertiamo nostra, che va cambiata dalle fondamenta, al cui posto vogliamo pilastri che non possono essere abbattuti, perché hanno sangue nella memoria e hanno corpo in una storia intollerabile che pesa sul coscienza dell’umanità.

Consumava le sue dita tamburellando su quell bancone, mimando la danza che esse fanno su un piano. Non aveva mai suonato il piano. Non ne aveva mai avuto la possibilità o meglio la voglia. Perchè in fondo se sei una di quelle persone che vive della passione che ti sfama, ti fa disseta, ti illumina lo sguardo al punto da poter dire con sicura certezza che non sei piu cieco. Beh allora non c’è possibilità, tempo, impegno, ostacolo che ti fermi se vuoi avere le tue dita danzare su un piano.
La prima volta che mi soffermai a guardarla era in quell’età in cui la consapevolezza di aver già scritto capitoli importanti della tua vita, ti porta a guardare il futuro con l’ansia di uno scrittore che sa che i piu’ importanti sono li pronti nell’inchiostro della sua penna, ma il terrore di non avere la mano abbastanza ferma da disegnarli, può arrivare anche a consumarlo.
La guardavo con curiosità, mentre entrava nelle classi come un gladiatore entra nell’arena. Senza scherzare, vi immaginate dover spiegare a 30 teste piene di tutto e niente che nella vita può decider di accendere la luce nella stanza o meno. Ti possono mangiare vivo con la loro indifferenza. E sbattere contro mura fatte di fumo, fallendo è un male ben peggiore di qualsiasi malattia blaterata dai dottori.
La paura del fallimento, oh quella ha fatto milioni di vittime. Pittori, scrittori, filosofi, geologi, ballerini ..beh..non sono mai nati. Non li abbiamo mai visti, ce li siamo persi in una strada affollata da gente senza credo.
Non sono mai stata interessata alla marea di parole vomitate da manuali privi di spirito e molti di voi sapranno che quando sei così incredibilmente vicino alla fine di un obbligo senza scampo, ormai ti siedi a far finta che tutto abbia un senso solo perchè l’agonia abbia fine.
Eppure quell’ora lì l’ascoltavo. A dirla tutta ve la posso confessare una cosa: mi interessava poco di ciò che riguardava il vero motivo per cui era lì. No, ascoltavo il modo in cui cercava di sbattermelo in faccia, cercando di capire il motivo che la portasse cosi ostinatamente a scuoterci dal nostro torpore, che era cosi caldo.
Sembrava un pazzo che sotto la pioggia, ti colpisce a forza pur di toglierti quel dannato ombrello a cui sei cosi ostinatamente aggrappato. Solo per sentire per la prima volta sulla nostra pelle, il gelido tocco di una goccia d’acqua.
Animava il suo sguardo di ciò che leggeva, animava i suoi polmoni di ciò che scriveva, animava il suo cuore con ciò per cui combatteva.
Ho guardato la neve scendere su un mondo di ingiusti con lei, ho stordito I miei timpani con il silenzio dei sogni interroti . Mi ha spaccato le mani pur di strapparmi quel dannato ombrello..e ora..e ora beh sono sotto la pioggia che brucia I miei tagli e miei lividi, con un libro stretto tra le mia dita barattato per un ombrello rotto.
E di tutti I posti che ho visto, di tutti i corpi che si trascinavano per I vicoli delle città che ho percorso..finivo sempre per fermarmi sotto la pioggia a riscaldarmi di storie e whiskey, che scorreva in sorrisi di pochi altri mie vicini.
Che il vento si alzi allora e che la pioggia ci bruci , perchè solo allora saremo davvero a casa.

lunedì 7 ottobre 2013

Mi guardo diventare nervosa e impaziente ogni qualvolta mi rendo conto di non essere riuscita a placare quel conflitto interiore che è sempre stato la mia croce, e la mi forza - sono un'imbarcazione, in balia dell'oceano in tempesta. E sebbene stia lottando per raggiungere un porto sicuro, non ho casa sulla terraferma, la mia unica realtà resta il mare. Il suo, l'unico richiamo.
E voi, tutti voi, siete il mio oceano e dovunque vada sarete sempre sulla mia rotta. Chiunque siate, vi guarderò con nostalgia al riparo della baia, indossandovi come cicatrici di cui non smetterò mai di raccontare. Non conosco molti di voi e di alcuni scorderò il nome, ma siete la mia unica casa, sono completamente, perdutamente vostra. Siete la mia sicurezza, e la mia battaglia. E non vi perdonerò mai per questo, e non mi perdonerò la follia con cui vi amo.
Siete la causa e la cura del mio senso di inadeguatezza, della mia indecisione, della mia solitudine. Popolate i miei sogni più bui. 
Ma la verità è che non possiamo lasciarci.
Salperemo ancora, e starà calando il sole - bruceremo assieme alla luce del tramonto, e tutti resteranno ammaliati di fronte alla nostra impietosa bellezza.

sabato 5 ottobre 2013


Stringimi forte, perché sono un nomade senza speranza. Belle parole, ma se non sai cosa vuol dire veramente odiare cosi tanto la tua natura non le capirai mai abbastanza. Ti odi, odi questa tua natura che non ti fa restare mai in un posto abbastanza per dire che è quello lì l’angolo del mondo, dove fumarti il resto del pacchetto delle tue sigarette. E invece no, invece ancora no. Invece sempre li a correre per inseguire il prossimo pullman, aereo , treno. Qualsiasi cosa ti porti a prendere e correre veloce piu veloce ancora verso il mondo. Il mondo che alle volte è cosi bello, da spezzarti il tuo cazzo di cuore che credevi abbastanza grande per contenere tutto ciò che ti tribola dentro.
Ma se vogliamo alla fine dei conti è questo, la tua vita può essere su una comoda bicicletta o può essere di corsa con le tue scarpe rotte.
Quando sei in bici, pedali e ti tieni su , aiutandoti con un equilibrio inconscio, tenuto su da qualcosa che è nella tua mente, ma che non conosci. E non puoi fermarti , pedali e sorridi per i posti che vedi di sfuggita ma continui a pedalare forte buttando fuori il poco fiato che ti è rimasto in corpo.
Ma quando corri, o cazzo se è diverso. Puoi fermarti, puoi scegliere di fermarti, di smettere di correre , puoi scegliere di goderti il paesaggio, di star li a guardare i cigni volare.
Lo sapevate che i cigni volano? Io no. Vederli su uno dei tre laghi di Copenhagen, cosi maestosi, cosi perfetti mi ha lasciato cosi tanto senza parole da piangere.
Dio se solo la gente decidesse di piangere per quanto il mondo è perfetto nella sua solitaria bellezza.

venerdì 4 ottobre 2013

"I was in the winter of my life, and the men I met along the road were my only summer.
At night I fell asleep with visions of myself, dancing and laughing and crying with them.
Three years down the line of being on an endless world tour, and my memories of them were the only things that sustained me, and my only real happy times.
I was a singer - not a very popular one,
I once had dreams of becoming a beautiful poet, but upon an unfortunate series of events saw those dreams dashed and divided like a million stars in the night sky that I wished on over and over again, sparkling and broken.
But I didn't really mind because I knew that it takes getting everything you ever wanted, and then losing it to know what true freedom is.
When the people I used to know found out what I had been doing, how I'd been living, they asked me why - but there's no use in talking to people who have home.
They have no idea what it's like to seek safety in other people - for home to be wherever you lay your head.
I was always an unusual girl.
My mother told me I had a chameleon soul, no moral compass pointing due north, no fixed personality; just an inner indecisiveness that was as wide and as wavering as the ocean...
And if I said I didn't plan for it to turn out this way I'd be lying...
Because I was born to be the other woman.
Who belonged to no one, who belonged to everyone.
Who had nothing, who wanted everything, with a fire for every experience and an obsession for freedom that terrified me to the point that I couldn't even talk about it, and pushed me to a nomadic point of madness that both dazzled and dizzied me."




lunedì 30 settembre 2013

Ne aveva sempre avuto l'impressione. Nasciamo soli, moriamo soli e, che lo accettiamo o meno, siamo soli per tutta la durata del viaggio - se lo ricorda ora, mentre aspetta.
Nell'attesa si dà alla città una fascino che non merita - lo sa che non c'è poesia nella luce itterica dei lampioni, eppure li guarda come gli amanti si meravigliano di fronte al tramonto. Ma non ci sono amanti qui, e il tramonto se l'è perso da un pezzo.
C'è gente che rincorre i pullman notturni. E i treni sembrano non arrivare mai.
Aspetta con lo zaino buttato a terra. Se l'era quasi dimenticato, come ci si sente, ce l'aveva quasi fatta - ma dev'essere come l'eroina, come quando lo rifai dopo un po' di tempo e ricordi come si stava bene in quei pochi secondi. Come ci si dimenticava di tutto. Ti accorgi che non volevi smettere veramente, prima, che non volevi cominciare veramente, poi. Non che ti freghi qualcosa di pentirti.
Se potesse dare un volto all'ultima notte, sarebbe quello. Soli, ad aspettare. Senza bisogno di ricordare la strada di casa, senza dover dare la buonanotte a nessuno. Il tempo smette di andare in linea retta, l'alba non si trova all'uscita dei pub. Una notte densa, tanto che la città non riesce ad essere assordante, una notte che resta lì davanti a te a farsi guardare. Silenziosa. Intatta. Ostinata. L'ultima notte di attesa. Vorresti ti entrasse dentro per poterle dare un limite, una dimensione. Ma niente. La città, e la sua ultima notte - e la città è solo insegne e spettri di edifici industriali che fino a ieri non esistevano. E' solo una città. Auto parcheggiate male, tassisti turchi. Gente dell'Est viaggia trasportando buste di plastica. Nemmeno la luna si sforza a specchiarsi sul canale. E' solo una città, di quelle che non importa se ci tornerai.
Accende l'ultima sigaretta, prima che l'autista polacco interrompa la sua attesa.
Se la sarebbe tenuta stretta, in un modo o nell'altro, quella solitudine.
C'è ancora gente che rincorre i pullman notturni.

domenica 22 settembre 2013

Prague


Nevicava, ma non c’era alcun fastidio a non avere nessun tipo di riparo sotto i fiocchi leggeri che non avevano poi questo grande interesse a infastidirti. Anzi, al massimo ti sussurravano parole veloci e non troppo impegnative. L’unico loro compito era di ricoprire i tetti, le strade, i vicoli solitari e i cappelli di chi li percorreva. Facendo silenzio. La neve a Praga fa silenzio.
Anja non porta il cappuccio calato sul capo o nessun altra cosa potesse ripararla , non che lo voglia intendiamoci. Non ci fa caso. Non c’è una ragione particolare, non è un animo poetico o romantico, di quelli che cercano risposte nel tempo . Semplicemente, non se ne curava. Si curava di poche cose , ma in maniera intensa, meticolosa quasi vitale.
La sua musica , le cartine dei metrò delle città in cui aveva giocato e quelle poche altre cose che possono attraversare la vita di una ragazza non piu’ bambina, ma non ancora donna, che si divide fra la sua casa e i pezzi di notte restanti dopo che la città non era abbastanza brava da trovarla.
Che Anja suoni il violino,studi Medicina o sia una mantenuta di una famiglia di spettri non credo interessi a me o a voi, forse neanche a lei. Non immaginatevi una persona fatta di braccia, gambe e testa, non lo era mai stata. Lei era la pioggia che si nascondeva per i vicoli, piu’ furba della neve ma priva della sua autorità. Era questa l’impressione che ti trasmetteva quando la vedevi seduta ad un tavolino del  kavàrna di uno dei tanti vicoli dell’Old Town poco lontano dall’orologio; niente di particolare in questo cafè rispetto agli altri, un paio di tavolini di legno, un proprietario che aveva dovuto imparare alla svelta l’inglese non appena la città aveva deciso di aprirsi al turismo, ma con negli occhi quello che leggi in tutti gli sguardi degli uomini dell’Est Europa. Uomini che in pochi anni hanno rivista restituita la loro possibilità di scelta, con tutto ciò che ne comporta.
Lei girava le cartine come il mondo rigira i bambini, che quando vanno tutti giu’ per terra si trovano già adulti. Si nascondeva in quel tabacco di qualità scadente,mischiandolo con labbra di tequilà invecchiato male su pelle che si è rimarginata troppe volte.  Si nascondeva da sé stessa, perché si sa l’acqua scivola e scompare perdendosi nello scolo di un tombino senza profondità che si è scelta accuratamente per i suoi giorni migliori.
Ti dava di pioggia perché li vedevi cadere i suoi pensieri come le gocce , uno dopo l’altra, con un volume troppo forte. Rompevano anche i tuoi di timpani quelle gocce.
 Ok e se la smetti di girare il drum, se la smetti di fare il filtro con la cartina del biglietto del tram, se smetti di alzare e svuotare quel bicchiere . Se smetti di estinguere le tue idee. Se smetti di dare alla caccia a te stesso. Che succede?
Ti prego riempirlo di calci , rompergli i denti , non servirà a togliergli la voce. Ha una voce del cazzo, ti entra dentro, ti tortura al centro dello stomaco, la senti lì in mezzo vicino al diaframma , non nella testa.
E’ peggio dei giudizi di tutti, è peggio di quel senso di delusione che leggi nel tono di voce di tutta quella gente che ha avuto piu’ palle di te. Perché parliamo di quello , Anja, di palle. Ne hai per alzare una mano, per tirare un pugno, per far correre piu’ forte le tue gambe, per non preoccuparti delle conseguenze, ma per te stessa, non hai neanche la dignità di uno specchio. Allora, vuoi tutti gli anestetici, qualsiasi cosa annebbi la visione, che abbassi il tuo udito, che faccia scendere tutto il veleno che ti hanno fatto ingoiare.
Anja vuole tutto, tutto ciò che avete per permetterle di dimenticare e non vedere. Perchè l’ hanno fottuta, le hanno dato una macchina ad alta cilindrata , ma hanno chiuso i pozzi di petrolio . E allora non serve ad un cazzo. Allora datele anche una sbarra di ferro, vuole vedere i vetri rompersi senza un urlo, vuole il motore bruciato senza neanche far brillare un fiammifero, vuole smontare la carrozzeria senza una lacrima.
Non ha mai sputato addosso a qualcuno. Non si da mai la possibilità di farlo. Ma ad alcuni mostra sempre troppo il fianco, e quelli lì non si risparmiano mai. Dice Anja di Avvisare quello a destra, si quello con i capelli scuri e l’aria giovane, che mangia con la fame dei giusti , che gli è rimasto un pezzo fra i denti. No, no, non che le serva, era solo per fare una gentilezza avvertendolo . Guardarsi allo specchio poi e trovare qualcosa di nuovo in mezzo ai nostri denti, ci lascia sempre così sconvolti che facciamo finta di niente  e passarci la nostra verità di nylon fa sanguinare troppo le gengive che non ci hanno ancora rotto.
Anja ha paura di chi non sopporta  la pioggia, perciò si traveste da neve.
Anja rivuole  indietro le sue bambole.                                                                                                 
Le sue bambole senza l’impegno che ti circonda mentre ci giochi; i bambini non se ne accorgono ma hanno un mondo che li guarda colmo di aspettative intorno a loro. E piu’ cresci e piu’prendi quella consapevolezza , che lentamente ti fa sfiorire l’aria nei polmoni. E lì nascono i vizi , che non sono aria, ma un qualcosa di molto simile che ti fa avere l’impressione che siano pieni. Pieni. Anja aveva bisogno di una manciata di emozioni per sentire il suo cuore anche fin troppo piccolo per la forza che le apriva in due il petto, i polmoni fin troppo saturi di ossigeno. Nei periodi migliori ne bastava una, per scatenarle quel senso di calore, che tutti nella vita abbiamo conosciuto almeno una volta. Una sola. Basta. Basta per sentire tutto per una volta coincidere nel puzzle irrisolto con cui conviviamo e di cui forziamo i pezzi per illuderci di poterlo dare noi un senso alle cose. E’ una questione di fortuna:c’è a chi basta una sola piccola insulsa emozione perché lo shot salga subito, l’alcool emotivo entri subito in circolo; e chi sta spendendo tutti i suoi soldi a quel bancone ma non funziona. E’ come se il sangue e le emozioni non si mischiassero, come tutta la nostra vita fosse acqua.
Insapore. Inodore. Incolore.
Anja era una che non reggeva bene i sentimenti, i legami, le emozioni, se ne andava subito al primo shot di calore che arrivava ben dritto al petto. Bastava poco. Il silenzio dell’alba, un bicchiere di vino con un libro scritto per bene, un viaggio in treno in cui si risvegliava fra nuovi colori. Bastava poco. Bastava poco. Poi si sa come funziona, se non bevi dell’alcool buono, ma di quello che spacciano a basso costo , cercandoti di illudere che alla fine sia identico a quello che costa caro, ti spacchi piano piano lo stomaco. Il sangue non si mischia piu’ con le emozioni, perchè non riesce a riconoscere quelle di qualità. Le rifiuta tutte a prescindere.
Il problema? Che Anja, come tutti, era un’alcolizzata di sentimenti




sabato 21 settembre 2013

«Tu potrai dire sicuramente che sono una persona difficile, immatura, che non so cosa sia la vita. Che la mia generazione non lo sa. E’ vero probabilmente non lo so, non lo sappiamo. Ma sai che c’è? Che è questo il problema. In compagnia di una sigaretta, seduti su scalini di città che non ci apparterranno mai, spendiamo le ultime ore di una serata, sperando nei suoi ultimi minuti. Sperando che quando le lancette dell’orologio raggiungeranno la mezzanotte, troveremo I nostri perchè mischiati con whiskey senza ghiaccio . Il perchè non riusciamo a rimanere in un posto, il perchè non riusciamo a non sbattere la porta e andarcene davanti ad un problema, il perchè siamo persi davanti ai vetri di un bicchiere rotto. Peccato contenesse il nostro sogno mischiato con vodka liscia. E allora passiamo la notte seduti in compagnia di stranieri come noi e di una bottiglia di whiskey, perchè I mali del mondo non sono il cancro, l’HIV, e tutte quelle stronzate di cui vi riempiono I giornali. Oggi si muore di noia e solitudine. E quando non c’è la noia, c’è quell’instancabile sensazione di essere persi in mezzo ad un nulla imposto da una società costruita sulla sabbia da formiche ceche. E quando crederai che hai già sentito il colpo di una pistola nei timpani, e già sai come la carne si divide davanti ad un proiettile, scoprirai che non sapevi proprio un cazzo. E che il dolore può scoprire sempre nuove forme per prenderti alla bocca dello stomaco e giocare con la tua carne. E lo sguardo di chi sta sparando, non lo conoscerai mai abbastanza. Sarà la sorpresa davanti alla freddezza di quello sguardo che ti butta a terra, di quel braccio teso per non sbagliare la mira. Ma ricorda di baciare quella mano, che stretta sarà sulla pistola. Il proiettile ti attraverserà con tutto un altro sapore. Chissà magari è la volta buona che non ti alzi più.»
L.

«Ma lo sai cosa? E' che la vita, nessuno può dirti cosa sia. E' che, il bello della vita, è il suo sterzare di colpo a una curva inaspettata, o farti lo sgambetto mentre trasporti una scatola con la scritta "fragile". Il suo sorriderti lasciva, un po' zoccola, e poi fregarti il portafogli. Noi della "nostra generazione" non sappiamo cosa sia la vita tanto quanto non lo sapevano i nostri genitori e i nostri nonni prima di loro. Forse non sapremo mai cosa vuol dire avere da mangiare solo farina di castagne e acqua mentre intorno a te esplode letteralmente l'odio delle Nazioni. Non sappiamo com'è crescere un figlio e non sappiamo com'è lavorare in fabbrica a quindici anni. E' che non abbiamo assolutamente bisogno di saperlo, perché la nostra vita non è così, e nessuno può venirti a dire "non sai cos'è la vita vera". Beh, notizia dell'ultim'ora: questa è la vita vera. E' solo completamente diversa, ma cristo, è meravigliosa. E non voglio istruzioni da seguire, perché non ce ne sono. Non voglio che qualcuno mi venga a dire che la vita è scuola, casa, lavoro, figli, un cane, l'assicurazione sanitaria, il mutuo da pagare, la tv via cavo - e se qualcuno venisse a dirmelo, voglio sentirmi libera di mandarlo affanculo. E non voglio neanche sperare che arrivi una qualche fine, e con lei le risposte. Non voglio guardare il fondo di un bicchiere e aspettare l'illuminazione, nonostante la certezza recondita e martellante che quell'illuminazione non arriverà mai da sola. E, per certe cose, non voglio neanche chiedermi perché. Perché non riusciamo a stare ferme, perché crolla tutto? Sai cosa ti dico? Chi se ne importa. Non riesco a stare ferma? Corro finché non sento i muscoli andare a fuoco. Voglio restare? Resto finché il mio spazio non diventerà di nuovo troppo piccolo e soffocante per volerci rimanere un secondo di più. Se le risposte non arriveranno mai non importa. Quanto peso ha, alla fine, sapere perché? Hai fatto quello che volevi fare, e quando non sapevi cosa fare, hai fatto qualcosa lo stesso. Magari è stato fantastico, magari ti mangi le mani ancora adesso, magari ti svuota completamente, magari ti toglie il fiato ogni volta che ci ripensi, magari era totalmente sbagliato. L'importante è non uscirne mai indenni, o indifferenti. Del resto, non so nemmeno cosa stiamo cercando o se ci sia qualcosa da cercare. Senso di appartenenza? Un posto nel mondo? Dio? Seduta sullo stesso gradino di una città sconosciuta che contemplo distrattamente dietro spirali sconnesse di fumo, so benissimo che è esattamente quello il mio posto. Qui, adesso. Magari non domani, ma domani non importa. E quel vuoto che senti mordere dentro, è il modo che ha il mondo di appartenerti. E in quanto a Dio, noi sappiamo benissimo che esiste, e non è per nulla come ce l'hanno raccontato. Noi l'abbiamo visto. Te lo ricordi? L'abbiamo incontrato negli appartamenti disordinati dei ventenni della working class, e abbiamo bevuto con lui nei pub di periferia. Era lì al tramonto sulla Galway Bay e nelle strade brulicanti di vita alle sei di mattina. Gli mancava una casa, mentre la strada lo chiamava. Ha passato notti intere a sentirci parlare, sature di intenzioni, e sogni, e rabbia... Lo ricordi, adesso? Dio siamo noi che non ci arrendiamo.
Oggi si muore di noia e di solitudine solo se si lascia che noia e solitudine ci corrodano, pezzo per pezzo. Centimetro per centimetro. Ma puoi anche non morire. Magari mi ritroverò davanti alla canna vuota di quella pistola. E sarà freddo, e farà male. Ma io voglio rialzarmi. E rialzarmi. E rialzarmi ancora. E non permettere che nessuno mi lasci a terra. Se cadrò, cadrò da sola. Fino ad allora, ognuno di noi avrà sempre una stronzissima mano da afferrare per rialzarsi. E se davvero ho capito qualcosa di tutto questo, credimi, la afferrerà.» G.